Interventi Educativi #1-2020 - Lettera ai lettori

Interventi Educativi 1-2020

Gentili lettori, gentili lettrici,

appartenere pare essere costituito, nel suo etimo, da due voci che sono da un lato “essere proprietà” e dall’altra “essere parte”. Questa duplicità circoscrive due significati: il primo rimanda all’essere un bene di legittima proprietà di qualcuno; il secondo al “fare parte” di qualche cosa di più ampio e articolato. Rispetto a questo secondo significato, il vocabolario che ho utilizzato per meglio chiarire propone proprio come esempio: “fare parte di una famiglia”.
Riprendendo i due significati, un primo pensiero è che quando veniamo al mondo in una famiglia, ovviamente preesistente, questa ci può sentire, ci può vivere e ci può crescere come “appartenenti” nel primo dei due significati della parola, ovvero come una proprietà, un possesso, un bene di cui disporre, certamente da curare, ma anche a volte da poter vendere, buttar via…, perché proprietà di chi ci ha generato, non sempre capace di ben disporre del bene che si è trovato fra le mani.
Se così fosse, ovvero se nasciamo come proprietà di qualcuno, allora il processo d’individuazione e separazione come un Io si appartenente, ma anche diverso, senza con-fusione, dai componenti della famiglia in cui e da cui nasciamo, non può che essere di liberazione, affermando che non si è il e nel possesso di nessuno; e questo anche se legati, anche se prossimi, anche se nati da qualcuno cui torniamo e di cui sentiamo di essere una continuazione nel tempo. In questo caso, quindi, il processo di separazione e individuazione diviene un vero e proprio processo di liberazione, fra molti conflitti e mediazioni, che è portato avanti dal neo-nato in ogni fase del suo crescere, spesso anche ambiguamente aiutato da chi l’ha generato, che vuole liberarsi da un fardello, ma forse non rinunciare a una proprietà.
Qualche volta, poi, se il bene “proprietà” della famiglia è per qualche motivo deteriorato, o comunque non rispondente alle attese, la risposta può anche essere l'abbandono: appunto un fardello di meno, che pare non servire a nulla.
Se invece la famiglia in cui si nasce ci sente, ci avverte e ci cresce come una parte già distinta, già un Io con una sua specificità, con una sua identità e soprattutto in libertà dal possesso, ma non dal legame, allora, pur nel conflitto, la crescita diventa un reciproco percorso di riconoscimento nella gratitudine. Ma anche di risentimento e rivendicazione per il presunto non avuto, che è la cifra universale dell'invidia: “se mi hanno dato tanto, vuol dire che avevano di più...”.
Liberazione da… e gratitudine verso…, non sono dati a priori: sono, se va bene, arrivi di una ricerca continua lungo tutto il corso della vita.
E forse, a volte, con arresti e derive di estraniazione e di rifiuto.
Per questo la famiglia è centro assoluto di narrazioni sempre drammatiche, a volte anche tragiche, di come individui legati fra loro si possono, desiderano e cercano di riconoscersi nell’amore senza soffocarsi, ma neanche senza dimenticarsi e ci si augura senza violarsi.

Buona lettura,
Francesco Caggio

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